Quando arrivai a Roma per lavoro, dodici anni fa, mi affacciai ansioso di assistere a visioni distoniche, al cinema Intrastevere per "Arcipelago", nato nel 1992, tra i primissimi festival di cortometraggi in Italia. Dopo vent'anni, Arcipelago chiude. Proprio nell'anno in cui dedica la propria edizione ad un uomo grande, dolce, deliziosamente "altro" come Corso Salani. Appresa la notizia sono stato invaso da una infinita tristezza: se ne va il mio mondo, non so come dirla meglio di così. Il mondo degli scopritori, dei pionieri, di una generazione ontologicamente precaria e per questo curiosa e innovatrice. I figli degli anni novanta, la generazione x e tutte le etichette possibili non dicono abbastanza di un mondo che non scompare, ma decide di immergersi nel sottobosco, alla ricerca di riparo. Mentre in Consiglio comunale si prendono a mazzate per privatizzare un altro gioiello romano, l'Acea, succede che la politica, le istituzioni, gli sponsor si disinteressino ad uno dei più importanti momenti di scoperta di cinema del futuro. Senza Arcipelago gente come Garrone o Winspeare non sarebbe mai emersa così rapidamente. Senza Arcipelago e senza l'Acea e senza tante altre cose che stanno massacrando, Roma non sarà più la stessa attraente, ammaliante sirena che ci ha chiamati a lei in anni passati. Sarà una città morta, come le anime di Gogol, alla ricerca di niente che non sia il solo business. Senza Arcipelago siamo più tristi e più soli al mondo.