Abbiamo coprodotto con l’Indigo Film un progetto per noi importante dal titolo “La nave dolce” per la regia di Daniele Vicari. Il progetto risale al 2010 e allora il nostro Presidente era Oscar Iarussi che nel lontano anno duemilauno scrisse un libro dal titolo “Ciak si Puglia”, ispirato da molta letteratura meridiana – e in particolare da quella di Franco Cassano – che poneva come atto di rinascita dell’identità regionale, finalmente capace di produrre un proprio immaginario, proprio lo sbarco degli albanesi con la nave Vlora nel 1991, momento storico di cui narra il film in questione.
Antonella Gaeta ha co-sceneggiato il film oltre un anno prima di essere indicata da Vendola quale nuova Presidente, al posto di Iarussi, nel frattempo dimessosi dal suo incarico. L’idea filmica nasce da una serie di colloqui svolti nel 2009 e 2010 da me con Gigi De Luca e Ilir Butka. Nel luglio 2012 il film, nel frattempo terminato, viene selezionato al Festival di Venezia e passerà nelle sue sale i giorni 2, 3 e 4 di settembre. Il pubblico potrà vederlo a partire dall’8 novembre in una trentina di sale distribuito da Microcinema e successivamente su Telenorba e poi su RaiTre, che dedicherà al film un evento speciale oltre alla programmazione.
Si tratta a ben vedere di un caso esemplare di produzione indipendente di successo, almeno sotto il profilo produttivo. Nella compagine, infatti, sono entrati Rai Cinema, Ska-Ndal film di Tirana oltre a Indigo e AFC così come diversi fondi audiovisivi privati e pubblici. Capiremo come verrà successivamente accolto dal pubblico italiano che potrà vederlo dapprima in sala e successivamente in home video e in tv. Tuttavia anche sotto il profilo distributivo, l’efficienza, la stima, la riconoscibilità positiva di cui gode la nostra film commission ha consentito di chiudere un accordo commerciale vantaggiosissimo per la produzione, sì da permetterne la diffusione e la visibilità al più vasto pubblico possibile.
In un Paese non condizionato da un dibattito politico bassissimo, da sommovimenti malpancisti, da sedicenti guru della comunicazione che si trasformano in arruffa popolo, da moralisti attenti a misurare l’altrui successo come un proprio insuccesso invece che occasione di crescita collettiva, da una sinistra critica, ma solo per suicidarsi acriticamente; un’operazione produttiva simile avrebbe dovuto essere accolta da un coro unanime di approvazione e dal desiderio, innanzitutto, di vedere l’opera, diretta da un grande cineasta internazionale che, in quanto tale, ha il privilegio di adottare uno sguardo non condizionato dal (bassissimo) dibattito locale.
Invece un sito d’informazione on line (che si aggiorna una sola volta a settimana) ci ha attaccati con una tale virulenza, con argomenti capziosi e livorosi privi di alcun fondamento da costringere gli amministratori a valutare la concreta possibilità – ben confermata dai legali – di una querela per calunnia e diffamazione. E oggi il suo direttore rilascia un video blog lunare: forse mal suggerito da Anton Giulio Mancino prende fischi per fiaschi e descrive, peggiorando ancor di più la sua situazione, un quadro inesistente, giacché Gigi ed io abbiamo voluto fortemente realizzare questo film durante il nostro incarico, non prima. Perché fa parte del nostro incarico avere delle buone idee e ottemperare agli obblighi statutari. Per cui la citazione del mio caro amico Antonello Grimaldi è talmente fuori contesto da essere comica. Anzi no, drammatica per il racconto che ne vien fuori del giornalismo (online) italiano.
In questo post ci soffermeremo invece sul ben più strutturato pensiero del sociologo Onofrio Romano, anch’egli cresciuto alla scuola di Franco Cassano (come tanti di noi, peraltro), autore di un piccolo e famoso saggio di analisi politica che viene largamente citato dalle opposizioni per denigrare il lavoro di chi prova, non senza quotidiana fatica e molteplici errori, a costruire dopo aver molto pensato, invece che distruggere dopo aver poco scritto.
In sintesi estrema il ragionamento di Romano, che qui riportiamo, è che gli amministratori di un ente come il nostro non dovrebbero apparire, né trovarsi mai in situazioni di conflitto d’interesse e che la nostra condotta potrebbe produrre come effetto che i nuovi governanti un giorno potranno chiedere alla film commission di occuparsi della “pasquetta a Trepuzzi”. E, aggiunge, tali scelte invece, conducono in ultima analisi alla crisi della sinistra.
Ma noi qua non vogliamo occuparci di politica, ma solo di far bene il nostro lavoro. Infatti, non solo lo Statuto della nostra film commission prevede (rif: art. 3 comma c) la possibilità di produrre – anche direttamente – opere audiovisive che “promuovono e diffondono l'immagine e la conoscenza della Puglia”, ma il regolamento relativo alle incompatibilità prevede all’articolo 1 comma 1 che “La cariche di Presidente, di Vice Presidente, di componente del Consiglio di Amministrazione e di Direttore sono incompatibili con attività, incarichi e interessi che siano in conflitto con i compiti istituzionali della Fondazione Apulia Film Commission”.
Ora, il “ricoprire cariche gestorie o detenere partecipazioni in enti beneficiari di contributi della Fondazione” fa evidentemente riferimento alla impossibilità da parte nostra di produrre con proprie società progetti finanziati dalla AFC. Cosa cui ovviamente ci atteniamo scrupolosamente. Non di indirizzare le attività della Fondazione che dirigiamo verso esiti produttivi.
Dunque appare evidente che, se tra i compiti istituzionali previsti dalla legge istitutiva (LR n. 6/2004 art. 7), vi è anche quello di sostenere la produzione e la circuitazione di opere cinematografiche e audiovisive, realizzate nella regione, che promuovono e diffondono l'immagine e la conoscenza della Puglia, l’operazione co-produttiva de “La nave dolce” è perfettamente coerente con legge istitutiva, statuto e regolamento della nostra Fondazione.
Ma, si dice, questa operazione vìola le regole del mercato e della concorrenza. E perché mai? Noi non abbiamo impedito ad altri di terminare la propria opera (caso Amoroso D’Aragona), anzi lo abbiamo addirittura finanziato!
Noi non abbiamo sottratto risorse ad altre produzioni locali o internazionali interessate a produrre documentari simili o meno. Anzi, abbiamo adottato una “spending review” interna già da tempo, incrementando considerevolmente i fondi a disposizione delle produzioni, muovendoci a tutto campo per attivarne di nuove.
Noi non stiamo sperperando risorse pubbliche, giacché l’operazione è perfettamente sostenibile* (come spieghiamo in una nota in coda) e di poco superiore alla quota massima di sostegno per i documentari prevista dal nostro film fund nazionale.
Ma soprattutto noi abbiamo realizzato un film necessario, che narra la nostra vicenda storica recente, la nostra identità condivisa. Non produrremo mai opere di fiction, di puro intrattenimento o non coerenti con le finalità statutarie. Per questo è assurdo separare il merito dal metodo, caro Onofrio.
I gran dottori moralisti ci dicono però che la presidente Gaeta, il suo vice De Luca e io stesso non avremmo dovuto avere credits nel film. E perché mai? Per non irritare la sensibilità degli invidiosi e dei critici? La verità è che questa polemica dimostra, ancora una volta, la drammatica condizione del nostro sud, dove si è costretti a chiedere scusa per i successi del proprio lavoro.
Nel caso della Gaeta ci troviamo, poi, nel primo assurdo caso di conflitto d’interessi retroattivo! Come se venisse proibito a tutti gli sceneggiatori o ai giornalisti pugliesi di scrivere film finanziati dalla AFC ovvero articoli che parlino di noi da qui ai prossimi tre anni, così da evitare che possano essere in conflitto d’interessi laddove un domani fossero nominati presidenti della nostra Fondazione.
E poi Romano aggiunge che tra royalties e visibilità ci avvantaggiamo di una posizione di forza. Ma è difficile spiegare a chi ignora del tutto ciò di cui parla che non ci sono royalties quando non si è iscritti alla SIAE (né Gaeta, né altri) e che la visibilità, il prestigio, i contatti sono patrimonio di De Luca e Maselli da tempo assai precedente alla realizzazione de “La nave dolce” visto che Gigi ha inventato il funding pubblico ai film in Italia ed io – oltre alle mie reference costruite in anni di lavoro durissimo e apprezzato come direttore AFC – presiedo l’associazione nazionale delle film commission italiane. Si ammetterà un incarico un po’ più visibile di un buon documentario, per quanto importante.
In fondo però, al netto di invidie personali e pessime cadute di stile di alcuni dei tanti che hanno legittimamente ritenuto di prender parola in queste ore di forte calore agostano, io capisco che di politica parliamo, nel senso più alto. La concezione di Onofrio Romano infatti, che io rigetto con fermezza tetragona, vede gli enti pubblici non solo (doverosamente) imparziali e trasparenti, quanto soprattutto “neutrali”. Un ufficio pubblico che eroghi risorse in modo asettico, secondo bandi predefiniti e una tecnostruttura post napoleonica a gestirne gli esiti in modo glaciale. Per far questo non vi sarebbe bisogno dei Iarussi, Gaeta, De Luca o Maselli. Basterebbero dei semplici burocrati, che nulla sanno o capiscono di audiovisivo, come di qualunque altro tema.
La Puglia ha fatto un’altra scelta: ha deciso di dare un indirizzo chiaro, di politica culturale. Un film come “La nave dolce” andava fatto. Nel modello “romanesco” invece no. Ecco la differenza tra la nostra politica culturale e la cultura politica di alcuni.
Questa vicenda si chiude qui per quanto mi riguarda. Parto per Venezia sereno e m’impongo di non navigare troppo su Facebook, dove vendicatori mascherati e benpensanti di sinistra o destra giocheranno al tiro al piattello.
Per me, per tutti noi, parlano le opere che sosteniamo, le produzioni straniere che iniziano ad arrivare, i progetti che portiamo a compimento, le risorse che attraiamo, i bandi che vinciamo, i meravigliosi ragazzi e ragazze che lavorano con noi, le mille occasioni che creiamo per i talenti locali e, quanto più provo amarezza per questo assurdo dibattito locale, tanto più mi esalto seguendo i miei veri eroi del momento, Roberto e Vito che in America preparano il remake in forma di lungometraggio di un loro corto girato in Puglia, nato dentro il nostro workshop Puglia Experience e, puntualmente, finanziato con l’apulia film fund.
Nessuno ci dirà mai grazie per tutto questo. Ma noi siamo felici così. Tutti i Roberto e i Vito che incontreremo devono sapere che ogni sforzo fatto e da fare è solo per loro.
***
* Il costo industriale del film “La nave dolce” è di 281.000 € di cui il 60% coperto da Indigo e il 40% da AFC. Ma sono subentrati il coproduttore albanese con una quota di 10.000 € e Rai Cinema con un sostegno di 100.000 €. Inoltre la distribuzione sarà curata da Microcinema che farà un proprio investimento in P&A con recupero sull’incasso senza alcun costo per le produzioni. L’investimento finale totale per la produzione AFC è di 68.400. Ma siamo in attesa che entri anche un partner privato con una operazione di tax credit esterno che abbatterebbe ulteriormente la quota di investimento portandola ancora più giù.
Fonte:
“In un’altra vita ho lavorato per un’agenzia a capitale pubblico che, in virtù di una legge dello Stato, assegnava fondi (pubblici) a progetti di nuove imprese, valutati dalla stessa come meritevoli di finanziamento. Se mai mi fossi permesso di assegnare fondi ad un progetto d’impresa scritto da me medesimo e al sottoscritto intestato, di certo sarebbero venute a prendermi a casa le guardie. Ma probabilmente non avrebbero trovato nessuno, poiché sarebbe passata prima la Neuro.
Ora, succede che nella mia regione la Apulia Film Commission – che fa più o meno la stessa cosa con i progetti cinematografici – finanzi un film scritto (soggetto e sceneggiatura) dalla Presidente, dal Vicepresidente e dal Direttore della stessa AFC. Questo è il fatto. Un fatto cui c’è poco da aggiungere, che non richiede supplementi di indagine e di squallore più o meno documentati, somministrati per via semi-anonima e infame (ci torneremo più avanti). E’ un fatto lapalissianamente inammissibile, folle, contrario a qualsiasi principio, non di legalità, non di opportunità politica, ma di decenza civico-istituzionale. Punto e basta.
E non vale replicare che:
1) la AFC, per statuto, può produrre in proprio progetti cinematografici (certo, ma qui stiamo parlando della “istituzione” AFC che finanzia e produce un’opera scritta, con tanto di nome e cognome, dalle “persone” della Presidente A.G., del Vicepresidente L.D. e del Direttore S.M.: dalle “persone”!);
2) Vicepresidente e Direttore – si dichiara in un comunicato di AFC – non godranno di alcun beneficio finanziario dall’operazione (ne godranno i loro curricula, il loro prestigio, le loro relazioni professionali ecc.);
3) la sceneggiatrice A.G. – che, invece, a quanto si deduce dallo stesso comunicato, alle royalties non rinuncerà – è stata reclutata prima di diventare presidente di AFC (l’incompatibilità resta tutta, a prescindere dal fatto che sia nato prima l’uovo o la gallina: la Presidente, da che è tale, può utilizzare strutture e soldi della AFC per promuovere un prodotto i cui incassi finanziari e morali vanno in quota-parte a lei. Come si chiama questo, se non conflitto di interessi?);
4) il film è bello (no comment).
Il regolamento sulle incompatibilità approvato dalla stessa AFC recita all’art. 1:
“Le cariche di Presidente, di Vice Presidente, di componente del Consiglio di Amministrazione e di Direttore sono incompatibili con attività, incarichi e interessi che siano in conflitto con i compiti istituzionali della Fondazione Apulia Film Commission”.
Non sono un giurista, ma se l’attività di soggettista-sceneggiatore di un film prodotto dalla AFC non rientra tra quelle in conflitto d’interessi con le cariche apicali di AFC, mi chiedo a che cosa si riferisca questo articolo.
Tra le cause di ineleggibilità e di decadenza dalle stesse cariche troviamo poi all’art. 2:
“ricoprire cariche gestorie o detenere partecipazioni in enti beneficiari di contributi della Fondazione”.
Certo, la fattispecie di cui parliamo non è la stessa, ma la ratio della norma è inequivocabile. Quello che si vuole evitare è che chi concede il contributo non sia la stessa persona che, a qualche titolo, ne beneficia.
Insomma, il fatto è chiaro e doverne spiegare pubblicamente la gravità è davvero avvilente (è come spiegare le barzellette). Ma non è su questo che vogliamo soffermarci. Il punto è un altro. In un qualsiasi paese dotato dei minimi anticorpi di civiltà, una vicenda del genere sarebbe immediatamente sanata. Senza fiatare. Senza star lì a discutere. E se proprio non dovessero intervenire i responsabili politici direttamente interessati, dovrebbero farsi vivi la stampa, gli intellettuali, la società civile (ben prima che arrivino i magistrati: ché, questo sì, sarebbe davvero avvilente), insomma tutti quelli che quotidianamente pontificano di pubblica morale o bacchettano le gaffe dei membri della “casta”. Come mai, qui, ciò non avviene? Perché qui in Puglia si forma immediatamente una cappa di silenzio soffocante? Perché la vicenda deve essere sollevata dai soliti “contestatori di professione” o, peggio, da anonimi giustizieri mascherati che s’inventano uno pseudonimo, lanciano la cosa surrettiziamente sul web, aggiungendovi particolari potenzialmente inquietanti ma che nulla aggiungono al dato di fondo?
Ezio Mauro ha finalmente denunciato le molte malepiante berlusconiane che hanno attecchito nella nostra parte di campo, nella sinistra (sebbene Repubblica stessa sia stata protagonista di primo piano nell’intrapresa di queste derive e adesso corre ai ripari solo perché si vede scavalcata dal qualunquismo doc del Fatto Quotidiano).
La vicenda in oggetto non è altro che una delle tante declinazioni possibili del “direttismo”, quello che in politica porta i leader ad agire senza i freni delle regole e dei corpi intermedi, convinti, in virtù di autocertificate qualità superiori, che l’esercizio sfrenato della propria volontà di potenza equivalga al bene della comunità tutta. La vicenda è una rappresentazione in sedicesimo di questa piega. L’unico controllore ammesso è il proprio specchio.
In secondo luogo, bisognerà pure, una buona volta, affrontare di petto il nodo dei finanziamenti più o meno trasparenti che gli enti locali e le loro agenzie destinano in varie forme alla stampa e alle tv locali. E’ una tara di sistema di cui quasi nessuno parla, ma che all’evidenza impedisce lo sviluppo di un’opinione pubblica degna di questo nome.
Terzo. L’opportunità politica. Di queste cose è prudente in questo momento tacere perché siamo sotto campagna elettorale e c’è in ballo l’esperienza di governo di uno dei protagonisti chiave del centrosinistra italiano. Benissimo. E’ qualcosa a cui tengo in prima persona. Ma proprio per questo occorrerebbe intervenire subito, direttamente e senza esitazione, al massimo livello. La soluzione non è “non parlarne”, ma mettere a tema la questione generale del “Potere” che la vicenda evoca. Poiché simili macchie si espandono sottotraccia ad una velocità impensabile. E sotto l’apparenza del successo (attestato magari da qualche applauso a Venezia) covano il risentimento e il sospetto che poi esplodono a momento debito.
Ma la cappa è prodotta in ultima analisi da un fattore più insidioso, che non ha che fare con mere questioni di interesse o di opportunità politica. E’ quella sorta di omertà autodifensiva di ceto, che scatta nella buona comunità locale quando alcuni dei membri sgarrano. Siamo tutti amici e spesso anche “compagni”. L’indulgenza nei confronti di certi comportamenti, anche macroscopici, è quasi d’obbligo per mantenere la nostra sopravvivenza nel gruppo. Se i presidi democratici istituzionali e collettivi non funzionano, allora bisogna uscire in pubblico “individualmente”. Io stesso appartengo a questa comunità, conosco alcuni dei protagonisti della vicenda e scriverne mi costa. Per carità, non stiamo parlando di omertà mafiosa, ma semplicemente di un generale sentimento di indulgenza, giustificato dal fatto che, sinceramente, crediamo nella buona fede, nella professionalità e nella moralità delle persone implicate. In virtù di questa fiducia, siamo disposti a chiudere un occhio sulle leggerezze formali, badando solo alla sostanza (nella fattispecie, al buon film che è stato confezionato – ci scommetto che è buono, anche se non l’ho visto). Ma, infatti, non è un problema personale. Il problema è che non possiamo permetterci di andar leggeri sulle “forme”, poiché queste restano, si sedimentano, si radicano sul territorio e possono poi essere adoperate da altri attori, diciamo così, meno degni di fiducia. Per dire: quando gran parte dei protagonisti dell’attuale esperienza di governo pugliese avrà traslocato a Roma, noi che restiamo ci ritroveremo in regione una destra famelica, che magari darà la Film Commission al primo Santo che capita. E magari questi, sulla scia della “volontà di presenza” dai noi sbrigliata, vorrà competere con l’ultimo “Natale a Cortina” dei Vanzina, proponendo una “Pasquetta a Trepuzzi”: soggetto e regia di Santo. E a quel punto noi non potremo dire “a”.
Per troppi anni a sinistra abbiamo pensato di poter esorcizzare le poste in gioco inquietanti del Potere semplicemente rimuovendone la discussione, immaginandoci come ad esso alieni in virtù di una nostra superiore postura morale. E, invece, occorre assumere innanzi tutto la consapevolezza di starci (al potere), la consapevolezza che esso è ineliminabile (se vogliamo incidere sulla realtà) e che dunque occorre assumersi la responsabilità di affrontare, senza moralismi, la questione delle forme più idonee a evitarne le derive. Mi auguro che questo tema venga affrontato di petto negli Stati generali della sinistra per i quali la Puglia si appresta a fare da battistrada.”
Fonte
One Response
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Leggo con imbarazzo quanto riportato nell’articolo.
Siamo alle solite: criticare quanto di buono succede nella propria terra.
La differenza col passato che fortunatamente in Puglia è cambiata una mentalità, un clima,
perciò questi benpensanti non lasceranno il segno
come lo ha lasciato in pochi anni l’AFC.
Continuate e continuiamo così, pieno sostegno al vostro lavoro.
Con stima e affetto
Michele Bia