Ho recuperato, leggendo un libro che lo citava, questo mirabile articolo apparso sul primo numero di Pubblico del 22 settembre scorso a firma di un intellettuale di grandissimo valore, qual è Nicola Lagioia.
Mi ci identifico completamente e oggi, in questa domenica di lavoro, lo sento mio e lo pubblico.
Fonte: Minima & moralia
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di Nicola Lagioia
Quando il presidente del consiglio Mario Monti – durante un’intervista a “Sette”, poi al meeting di Cl – ha parlato di “generazione perduta”, riferendosi ai trenta-quarantenni che l’Italia avrebbe definitivamente mancato (un paradosso: venire maltrattati dal Paese salvato dal proprio sacrificio equivarrebbe a uscire dal solco della Storia), ho pensato che la psicanalisi di gruppo in cui abbiamo da tempo coinvolto i nostri recalcitranti padri stesse arrivando al punto.
Mai un leader politico aveva manifestato pubblicamente un tale odio per se stesso e la propria fascia anagrafica. “Atti mancati”: così li definiva Freud. Affinché però il processo di riemersione sia completo, sono ancora necessari un paio di passaggi.
Nessun lettore della Bibbia dimentica lo sgomento di Davide davanti a Natan quando rivela: “Tu sei quell’uomo”. Definire “perduta” qualcosa che non soltanto è davanti ai tuoi occhi, ma è destinata a sopravviverti, è un assurdo tentativo di negarne l’esistenza ignoto solo a chi ha bisogno di esperirlo. A nessuno piace rispecchiarsi nelle proprie colpe. In questo caso il bisogno nasce dal fatto che alcuni milioni di italiani sono – agli occhi di chi li ha preceduti – la prova del proprio fallimento.
Ridurre l’Altro a ciò che rivela di noi stessi è tuttavia un ulteriore segno di egoismo, da cui vorrei salvare non solo Monti ma un’intera mentalità. Si potrà cominciare col dire che l’Italia sarebbe crollata molte volte su se stessa se un paio di generazioni non se ne fossero preso carico negli ultimi dieci anni.
Cosa ne sarebbe stato della scuola, dell’università, del mondo della cultura e della comunicazione, della sanità se tanti ventenni, trentenni e ora anche quarantenni, a volte più qualificati dei loro padri, non avessero lottato tra le fiamme impedendone il crollo, in condizioni di pericolo che i padri stessi negavano per l’insensata vergogna di non sperimentarle, col paradosso che questi ultimi svolgevano contemporaneamente il ruolo del piromane e di chi tiene sotto chiave gli estintori?
Ecco allora che la nostra generazione un ruolo storico fondamentale l’ha fino ad ora svolto. Come si fa a definirla perduta? Attraversare l’ultimo decennio è stato come vivere in casa di genitori alcolizzati. Il paragone è forte, ma è difficile trovarne uno più calzante per riunire in un’unica patologia irresponsabilità, tirannia e amorevole paternalismo in contraddizione con se stesso.
Il figlio dell’amministratore delegato delle Assicurazioni Generali che, divenuto ministro, conia il termine “bamboccioni”. Il direttore generale della Luiss che consiglia al proprio figlio di abbandonare l’Italia delle vecchie oligarchie senza porsi il problema di farne parte e poi, non contento, scrive un libro in cui invoca a beneficio di se stesso un quarto d’ora supplementare di protagonismo per riparare al danno fatto. Il barone universitario comunista che non si pone il problema di far lavorare gratis gli assistenti… In questi anni ne abbiamo viste di tutti i colori, e non solo un ipertrofico senso di responsabilità ci ha sconsigliato di assassinare i padri, ma anche la gelosia identitaria: assomigliare alla generazione dei Freda e dei Morucci non ci piaceva.
E tuttavia siamo anche infantili, servili, isterici, invidiosi, frustrati, in attesa del primo compratore, costantemente tentati dal “si salvi chi può” dell’8 settembre infinito in cui viviamo. Come potrebbe essere altrimenti? In Linea d’ombra, capolavoro di Joseph Conrad e adeguamento modernista al rito di passaggio, a un giovane ufficiale viene affidato per la prima volta il comando di una nave. Guadagnare il mare aperto, combattendo con le febbri tropicali e poi con la bonaccia, è la missione che il giovane deve portare a termine per ritrovarsi adulto alla fine del romanzo.
Domanda: cosa accadrebbe se al posto di Conrad ci fosse un demiurgo malvagio il quale, da una parte non offrisse al giovane ufficiale il comando della nave, e dall’altra gli rimproverasse di non essere abbastanza adulto? È esattamente l’impasse in cui ci troviamo. E il rischio che corriamo è quello di crederci migliori del demiurgo per il fatto di subire l’ingiustizia.
Gli sfruttati, gli emarginati, i calpestati e gli incompresi devono essere davvero tali (cioè migliori) nella coscienza del mondo futuro, mai ai propri stessi occhi. È questo il pericolo da evitare. Crederci migliori è esattamente la trappola caduti nella quale ci sentiremmo legittimati a fare di quell’infantilismo, servilismo, invidia e opportunismo latenti le armi con cui mandare avanti il secondo tempo della nostra vita. Allora sì, saremmo perduti.
L’uscita guidata da questo labirinto non esiste. Chiamando ancora in causa la letteratura, basti per ora lucidare come lampade due potenti enigmi: al protagonista di Linea d’ombra viene offerto il timone della nave dopo che il vecchio comandante è morto pazzo; Conrad scrisse il romanzo nel 1917, dedicandolo al figlio Boris perso tra i fumi del primo conflitto mondiale, nel ventre di balena in cui altre forze (Altre?) lo avevano depositato."
Nicola Lagioia