Qualunque industria di prodotto ha necessità di affidare il compito di raggiungere un pubblico il più vasto possibile ad aziende specializzate nella logistica, nel marketing, nella distribuzione.
Le aziende più strutturate, grandi e integrate verticalmente, internalizzano tali servizi. Per esempio le aziende costruttrici di automobili gestiscono anche una propria rete retail e i servizi di post vendita tramite propri collaboratori e sezioni aziendali.
Anche il cinema non fa distinzioni: la distribuzione dei prodotti audiovisivi e del cinema viene curata da aziende specializzate che erogano tali servizi alle produzioni di contenuti.
In alcuni rari casi, le major americane oltre a Rai e Mediaset, si dotano di servizi interni così da creare una sinergia completa e abbattere i costi. 01 Distribution e Medusa distribuzione sono, al pari di Warner soggetti che producono audiovisivi e li distribuiscono pure, su più canali, theatrical, free tv, pay tv, home video, estero, canali editoriali diversi, ecc. In alcuni casi, i distributori sono anche proprietari delle sale dove mostrare i propri prodotti filmici.
Quello italiano è un mercato cosiddetto a clessidra. E' composto, cioè, da circa 400 società di produzione, da soli 60 distributori e da circa 2.000 società di esercizio cinematografico (proprietari e gestori di sale). La legge italiana ha previsto numerose provvidenze a favore della distribuzione cinematografica: il tax credit per distributori (15% delle spese sostenute per la distribuzione nazionale di un film, se riconosciuto di nazionalità italiana e di interesse culturale; 10% delle spese sostenute per la distribuzione nazionale di film riconosciuti di nazionalità italiana), nonché il rimborso automatico di parte delle risorse impiegate per il lancio di un film sul mercato italiano.
Il rapporto tra produttore di contenuti e distributori dovrebbe essere instaurato alla suddivisione del rischio.
Facciamo un esempio per capirci.
Poniamo di essere i produttori di un film documentario del valore produttivo di 300.000 euro. Per realizzarlo abbiamo attinto a risorse derivanti dal Mibac, dal tax credit esterno (raro e dunque prezioso), da un fondo regionale o film commission, da diritti di antenna, diritti su estero (difficili da prevendere). Quali produttori abbiamo assunto una dose di rischio contenuta, ma pur sempre impegnativa: per realizzare il film abbiamo anticipato delle risorse, aperto una linea di credito in banca, anticipato i pagamenti della troupe, dei materiali di archivio, degli autori, delle location e quant’altro necessario a completare l’opera. E il rischio viene remunerato dal “producer fee”, una quota di budget di progetto che il produttore trattiene per sé. Ma una volta finito il film, la sfida è di renderlo visibile a un pubblico non solo televisivo.
Nessun distributore italiano è oggi in grado di acquistare, prima che siano terminate le riprese, un documentario per la sua distribuzione in sala. La scelta viene rinviata al momento in cui il film sarà finito e magari selezionato ad un importante festival internazionale, a partire dalla quale premiére sarà più interessante far partire una campagna di lancio per l’uscita in sala. I costi di partecipazione al festival, peraltro, sono di norma inseriti nel budget di progetto e dunque rimangono quasi sempre a carico – almeno in larga parte – del produttore.
Una buona uscita sala consente a qualunque film di avere una vita più lunga nello sfruttamento commerciale. Di vendere di più e meglio i diritti esteri, il diritto home video, ecc.
Il buon senso suggerisce che il distributore, nel caso in esempio, paghi una fee al produttore perché questi gli ceda il diritto di sfruttare l’opera nelle sale (per una uscita in 10/15 schermi). Qualunque sia l’incasso in sala, il distributore si dovrebbe accollare la sua parte di rischio, investendo risorse per stampare le copie (pellicola o digitali), per acquistare le creatività e gli spazi pubblicitari, per organizzare la logistica (scelta degli schermi, contratti, spedizione delle copie, contratti Cedas, Siae, Sac, ecc). A sua volta, infatti, il distributore ha la certezza di recuperare da Tax credit, da provvidenze di legge, dagli incassi.
Il rischio verrebbe così ripartito.
Invece non funziona così e la grandissima parte dei distributori non ha interesse a distribuire opere difficili (quali sono i documentari, ma anche i film “art house” e di qualità, le opere prime e seconde) assecondando i gusti di un pubblico pigro, distratto, incolto.
Quando mostra invece interesse per l’opera, le proposte che arrivano sono indecenti: di solito i distributori chiedono ai produttori un mix di minimo garantito e di percentuale sugli incassi così da convincere gli esercenti cinematografici a loro legati a programmare per un numero minimo di giorni i film scelti.
Capite?
La situazione in cui ci troviamo è folle. E fare il mestiere di produttore sta diventando periglioso e assurdo. Mentre i distributori non rischiano nulla.
E’ la politica che deve intervenire e sciogliere il nodo e i produttori devono fare cartello per sconfiggere questo assurdo modo di fare business con i soldi degli altri.
Anche per tutto questo, noi abbiamo creato D’Autore.
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Condivido appieno. È meraviglioso trovare qualcuno che dia voce a questo tabu delle distribuzioni italiane che si comportano alla maniera degli strozzini, e se si pensa che oggi non esiste neppure più 01, la situazione si complica. Dirò di più: i distributori gonfiano le fatture e pretendono che il primo ad andare al recupero sia il distributore, così il film viene tenuto in sala fin tanto che il distributore non “recupera” e magari ci sta anche già guadagnando visto che le fatture sono gonfiate e il produttore non vede mai una lira. Risultato? Che il distributore accampa pretese assurde e dice pu che non ha ancora recuperato i costi e pretende magari anche la cessione sui diritti sulle vendite estere. Questo succede con le piccole distribuzioni che sono poi la principale fonte a cui si rivolgono la maggior parte delle opere prime quando non possono contare su un cast di interesse delle major. Il rischio non è solo di mandare in fumo nascenti produttori ma anche di disincentivare il tax credit esterno perché una azienda non ha mai il modo di andare al recupero della sua quota di rischio di impresa se neppure il produtto recupera, visto che a recuperare sono solo i distributori dhe pretendono questa clausola del recupero in primis. È vero che loro rischiano ma anche il produttore rischia allora perché solo il distributore deve andare al recupero e poi solo in una seconda fase il produttore? Se da un lato è vero che occorre ricostruire un mercato in Italia dall’altro è altrettanto vero che chi ostacola questa rinascita sono le piccole e medie distribuzioni.