Per il secondo appuntamento di “Registi fuori dagli sche(r)mi”, rassegna organizzata da Apulia Film Commission, curata dal critico cinematografico Luigi Abiusi in collaborazione con UZAK e ancora ispirata dal volume “Il film in cui nuoto è una febbre. Registi fuori dagli sche(r)mi” (CaratteriMobili 2012), è di scena il regista tedesco Jan Soldat con il suo film “Der Unfertige” (Germania, 2013). La pellicola sarà introdotta dallo stesso regista e dal critico cinematografico Giona Antonio Nazzaro (RockHard, Film TV, Filmcritica, Rumore).
La macchina da presa come grimaldello per scardinare le imposture fabbricate da visioni cristallizzate che sfuggono le incandescenze ardenti sotto la cenere del quotidiano. Jan Soldat s’incunea e acuisce il solco inferto nell’immaginario spettatoriale dal cinema di Romuald Karmakar. Come lui, anche il giovane filmmaker formatosi al Konrad Wolf College of Film and Television di Potsdam-Babelsberg, procede, (e di qui lo “scandalo”) senza intenti giudicanti, nell’osservazione minuziosa di comportamenti e stili di vita al di fuori di ciò che è socialmente accettabile e mostrabile, perché «nulla più del lato oscuro dell’esistenza umana reclama a viva voce la luce».
Ne è dimostrazione il suo percorso registico: nel 2010 Soldat vince, con “Endilich Urlaub” il Short Film Award al Pornfilmfestival di Berlino; lo stesso anno presenta, alla Berlinale, il documentario “Geliebt”. Nel 2013, con “Ein Wochenende in Deutschland”, è invitato al Festival Visions du Réel di Nyon.
Sempre nel 2013 Soldat porta al Festival Internazionale del Film di Roma, “Der Unfertige” (The Incomplete) il suo film di diploma, con il quale vince il Premio CinemaXXI film brevi.
“Puoi parlarci di te?”. “Omosessuale di Odenwald… o Gollum… o Klaus! 60 anni… schiavo!”. Così si racconta Klaus Johannes Wolf in Der Unfertige; nudo, incatenato al suo letto. Nonostante le premesse, Klaus è ordinato, composto, addirittura pudico, quasi candido nel dire della propria esistenza, nel confidare il desiderio di abbandonare tutto (cosa che farà), per perfezionarsi in un campo di schiavi e diventare un servo perfetto.
Soldat, consapevole del proprio ruolo e delle responsabilità ad esso connesse, pur senza alcuna censura, evita qualsivoglia morbosità e spettacolarizzazione, riuscendo, subito, ad andare oltre la retorica sensazionalistica a cui si presterebbe la materia.
L’autore non cerca intromissione ma nello stesso tempo sente il dovere di allestire un impianto filmico che possa permettere al soggetto coinvolto di esprimersi liberamente; è lui, infatti, a condurre il discorso. Soldat di fronte a Kalus sospende ogni giudizio adottando una messinscena neutra, antidrammatica, che non è esibizionistica dimostrazione di rigore stilistico ma atto di onestà intellettuale prima ancora che registico. Un atteggiamento che lo porta addirittura ad un rispecchiamento. Come dichiarato infatti nelle note di regia: “Essere uno schiavo nella società moderna è quasi come essere un documentarista. Si tratta di raggiungere il massimo della libertà entro limiti stabiliti”.