Hollywood, il cinema non abita più qui.
Gli altri Stati fanno concorrenza alla California. E i produttori "emigrano"
LORENZO SORIA
LOS ANGELES
Tra i film che furono girati qui ci sono Via col vento, Quarto potere e Gli intoccabili. In 90 anni, i Culver Studios ne hanno viste di tutti i colori, ma da quando il game show televisivo Deal or no deal ha deciso di trasferire la produzione in Connecticut le sue sale di posa, la mensa e il garage sono virtualmente vuoti. "Per noi è stato un colpo fatale", riconosce James Cella, presidente dello storico studio.
Anche se gli altri studio sono migrati da tempo in altre parti della città e nel rione che porta quel nome c’è ormai solo la Paramount, la parola Hollywood continua nel linguaggio comune a indicare il cinema prodotto a Los Angeles e, per estensione, in tutti gli Stati Uniti. È stato proprio per contrastare lo strapotere di Hollywood che molti Paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania, dalla Bulgaria alla Romania passando per l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada, hanno messo a disposizione strutture e soprattutto incentivi fiscali per attrarre le produzioni americane e per sviluppare l’industria cinematografica locale.
Ma la vera minaccia per Hollywood si sono rivelate le offerte non di Paesi lontani, ma degli altri 30 Stati degli Usa che hanno seguito la stessa politica. La più grande concentrazione di Hmong emigrati dalla Cambogia risiede in California, ma quando Clint Eastwood ha dovuto girare Gran Torino ha scelto il Michigan. Perché? Semplice, perché per ogni dollaro speso dentro i suoi confini, lo Stato rimborsa 42 centesimi, una proposta così generosa che Anthony Wensoi, amministratore delegato del Film Office locale, ha ricevuto la settimana scorsa una richiesta d’informazioni da un produttore dell’Ucraina: "Mi ha chiamato chiedendomi se potevamo riprodurre le strade di Kiev qui in Michigan", racconta divertito.
La Louisiana, dove l’anno scorso Brad Pitt ha girato Benjamin Button e il New Mexico, dove i fratelli Coen hanno diretto Non è un paese per vecchi e che, da quando nel 2002 ha approvato gli incentivi, ha visto arrivare 150 tra film e show televisivi, sono due degli Stati che più hanno beneficiato della fuga da Hollywood. Ma ci sono anche New York, lo Utah, l’Oregon, l’Arizona e appunto il Connecticut.
"Runaway productions", le chiamano qui. Le produzioni che scappano, un fenomeno di fronte al quale Hollywood, nonostante alla guida della California ci sia Arnold Schwarzenegger, è rimasta inerte. Una moda passeggera, si pensava. E poi, chi può davvero competere con l’esperienza delle maestranze creative e tecniche della capitale del cinema? Ma ora anche il titolo di capitale è in discussione, perché la percentuale di film americani realizzati in California è precipitata: dal 66% del 2003 al 31 dell’anno scorso.
E se si analizza la sola Los Angeles, si passa dai 71 film del ‘96 ai 21 del 2008 agli otto di quest’anno. Passando al pianeta televisione, le cose non vanno meglio: 44 dei 103 show andati in onda quest’anno sono stati girati altrove.
La California è diventata una location come le altre. Per fermare l’emorragia, pochi mesi fa lo Stato ha varato il suo piano di sgravi, mettendo a disposizione fino a 100 milioni di dollari per le produzioni che opteranno per girare qui. Una scelta che è stata bene accolta dagli studios e anche da quel significativo indotto fatto di tecnici, costumisti, montatori, parrucchieri, cuochi, fiorai e contabili che negli ultimi anni ha visto un calo occupazionale di quasi 20 mila persone.
Con quell’ottimismo che ormai non incanta più i concittadini, Schwarzenegger ha promesso che la situazione si raddrizzerà, ma l’opinione prevalente è che le sue contromisure siano troppo scarse e arrivino troppo tardi. I magazzini della 24/7 Studio Equipment, per esempio, per anni sono rimasti vuoti perché cineprese, carrelli e gru erano sempre in giro, affittati per Iron Man o Get Smart o altri film. Lance Sorenson, presidente della società, non ha dubbi: "Faccio questo mestiere da venticinque anni - dice - e non ho mai visto una crisi così lunga".
Anche Jack Keyser, economista capo della società che cura lo sviluppo economico della contea di Los Angeles, è molto preoccupato: "Com’è già accaduto con l’aerospaziale negli Anni Novanta - lamenta -, Los Angeles rischia di perdere una delle sue industrie simbolo". E il mondo la sua "fabbrica dei sogni" prediletta.
Fonte: La Stampa