Fate come vi pare, ma io non riesco più a far senza le analisi di Stefano Balassone.
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La tv cosiddetta generalista si esauriva un tempo nelle tre+tre reti del duopolio, il teatro delle gesta di Emilio Fede e Pippo Baudo (non turbi l’accostamento), la macchina da soldi di Berlusconi e dei suoi cari, che impazza da più di trenta anni. Tanto orribile per il mondo esterno, quanto normale per gli assuefatti italiani. Lì dentro, fino a pochi anni fa, finiva il 90 per cento del pubblico mentre il decimo restante brucava il cespuglietto Tmc (dal 2001 detta La7) e l’erbetta sparsa delle tv locali.
Ma da dieci anni esistono anche le offerte a pagamento (non che il resto non si paghi: il canone una volta all’anno, la pubblicità quando passiamo alla cassa del supermercato) fatte su misura per l’uomo-tifoso, l’uomo cinemaniaco, e via segmentando. Offerte che prima piovevano solo dal satellite, ma che ora affollano anche le vie del digitale terrestre. Col sopraggiungere di tutto questo ben di dio ovviamente i tre+tre canali “generalisti” di RaiSet non dominano più le giornate delle casalinghe e le serate in famiglia.
Il caso ha voluto però che proprio mentre dilagava la “nuova tv”, dentro quella vecchia La7, per merito o incoscienza della proprietà Telecom (quella di Bernabè), cominciasse a crescere tanto alla sera, a colpi di Mentana, Crozza, Santoro, Formigli, Gruber, quanto al mattino con Panella e la dilagante Merlino (prima mezz’ora, poi quaranta minuti, poi 90’ e adesso 2,5 ore. Al giorno).
Spesi i soldi per decollare – passando dal 3 per cento a quasi il 5 per cento per cento in controtendenza rispetto all’insieme della tv generalista che arretrava dal 90 per cento al 70 per cento – Telecom si è spaventata della spesa e, pur di disfarsene, ha ceduto la creatura affamata di ricavi proprio allo specialista dei medesimi, il concessionario pubblicitario, l’editore di rotocalchi stropicciabili, il presidente del Torino e sopraggiunto azionista del Corriere della Sera (un carrierone, bisogna ammetterlo).
Divenuto editore televisivo, almeno per una frazione di quel motel di competenze a ore che dev’essere la sua vita, Cairo ha fatto due mosse: una giusta (ha infilato al mercoledì Gianluigi Paragone e la sua simpatica plebaglia grillin-leghista) e una meno fortunata (la Linea Gialla del Salvo Sottile cui nomina non sunt omina). Da una parte ha costruito e dall’altra ha smontato; niente di strano perché in tv capita di tessere la tela di Penelope. E comunque, rispetto all’autunno del 2012, le cose, limitatamente al mattino e alla sera, sono migliorate (del resto già a inizio 2013 la vecchia proprietà aveva potato i rami più deboli).
Ma di sicuro non basta perché oltre al mattino e alla sera, ci sono gli altri orari: il pranzo, la pennichella, il the alle cinque e l’avanspettacolo che precede il tg. Tanto più che il prime time è affidato a star come Santoro, Mentana, Crozza Gruber, Formigli, e vogliamo aggiungerci anche Paragone, che se ne possono andare in ogni momento portandosi appresso il pubblico degli estimatori. Una vulnerabilità strategica che diventerebbe morte annunciata se mancasse il volano del resto della giornata, quello cui dovrebbe provvedere la factory aziendale, di per sé più adatta a sviluppare le “strisce quotidiane” (come in Rai e Mediaset, e una ragione ci sarà), che sono il lato “fordista” dell’offerta televisiva. Ed è qui che si verifica la differenza fra una azienda “cervello collettivo” e una combriccola concentrata a tirare sul prezzo. “Oilman or Oil salesman?”, soppesava in Mattei-Volontè il petroliere americano. “Producer o Palinsestaro?”, scrutiamo in Cairo Urbano, figlio dell’operoso Monferrato.
Il tempo degli esami è breve: da oggi al 2015, perché nel 2016 scade la Convenzione Rai ed è difficile che il Titanic trentennale e fallimentare del duopolio resti com’è, con tutto il caravanserraglio circostante. E allora si dirà: “chi c’è c’è”; e degli altri, Cairo e La7 compresi, non resterà la memoria. Né i soldi.
Fonte: Blog di Stefano Balassone