Ho iniziato a lavorare nell'industria del cinema (e dunque dei media) nel 2001.
Conobbi molto presto, appena giunto a Roma, Nicola Giuliano con la sua Indigo e poi Paolo Sorrentino con il suo formidabile "L'uomo in più", l'opera prima più folgorante del decennio scorso. E direi pure di quello successivo.
Nel 2004 ricordo ancora come fosse oggi l'ansia e i pesi che divisi con Domenico Procacci, allorquando importammo in Francia le pizze (erano 7 forse?) appena terminate in laboratorio de "Le conseguenze dell'amore", in concorso quell'anno a Cannes. Altro film epocale e decisivo per la carriera di Paolo.
E ricordo quando Nicola Giuliano mi aggiustò il papillon sul mio abito nero prima del montée de marche infiocchettato di rosso. E quando il presidente della giuria di quell'anno, Quentin Tarantino, scoppiò a ridere di gusto, da solo, al centro dell'enorme sala cannense alla scena del passante che sbatte al palo della luce per seguire il profilo di Olivia Magnani e un gigantesco Toni Servillo li osserva dalla finestra.
Quel che è accaduto stanotte a Los Angeles riporta alla mia mente le mozioni dell'affetto, sincero, per produttori e un autore considerati ancora giovani che non hanno mai fatto a patti con le sirene che vogliono normalizzare il nostro cinema, standardizzandolo in una melassa inconsistente e gommosa.
Quel che, con loro, ha visto il riconoscimento del premio più ambìo per chi fa il nostro mestiere, è l'industria italiana della produzione culturale. Una miscela di ambiti creativi, tecnici, economici, organizzativi che ora siede, dopo 15 anni, sul tetto del mondo grazie a un autore, ai suoi produttori e a tutti coloro i quali, ogni mattina, credono nella cultura come fattore di qualità sociale.
Da quel 2004 anche io sono cresciuto. Un po' anche con loro e grazie a loro. Oggi, da giovane uomo, affaticato per la semi nottata, brindo alla qualità italiana. Alla nostra grande bellezza.